Siria del Nord-est, Rojava

È difficile leggere questa trasformazione senza sentire una stretta profonda: ciò che era un sogno rivoluzionario, radicato nella lotta delle donne, nell’autogestione, nel rifiuto dello Stato-nazione e nella forza collettiva della Jineoloji, sembra ora piegarsi alle logiche fredde della realpolitik. Non per mancanza di coraggio, ma perché la morsa degli imperi — Turchia, Russia, Stati Uniti, Siria — non lascia scampo.

Quelle donne, le combattenti di YPJ, le madri di martiri, le filosofe curde, le attiviste nelle assemblee, sono tra le figure più luminose del nostro tempo. Hanno incarnato l’utopia di un mondo diverso, dove la libertà non fosse un privilegio, ma un diritto condiviso. “Jin, Jiyan, Azadî” non è solo uno slogan: è stato un grido di rinascita, di opposizione, di amore per la vita.

Il confederalismo democratico era, ed è ancora, una visione radicale e potente. Ma il mondo non ha voluto ascoltare. Gli stessi che hanno armato e applaudito le SDF nella lotta contro Daesh, oggi fanno silenzio mentre il sogno curdo viene normalizzato, integrato, smorzato. E sì, il peso del tradimento è reale. Ma ancora più reale è la dignità con cui questo popolo continua a camminare, a ricostruire, a sperare.

Chi ha amato quelle donne — e quello che rappresentano — porta dentro di sé una promessa: che quelle idee non siano morte. Che sopravvivano nelle parole, nei gesti, nel desiderio di giustizia. Anche solo ricordarle è già resistenza.

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