Hossam Shabat e Mohammed Mansour sono caduti sotto le bombe, ma il loro assassinio non si è consumato solo nei cieli di Gaza. C’è un’altra morte, più subdola, che si consuma nelle redazioni silenziose, nei notiziari distratti, nelle pagine bianche della grande informazione occidentale. Un’assenza che pesa come un macigno, perché cancella, nega, rimuove.

Due giornalisti palestinesi sono stati uccisi. Non per errore, non per caso. Mohammed Mansour era in casa, con la moglie e il figlio, quando l’aria ha tremato e le macerie si sono chiuse su di loro. Hossam Shabat stava raccontando la distruzione su Salah al-Din Street, nel cuore di Jabalia, quando la sua voce è stata ridotta in cenere. La loro colpa? Documentare, testimoniare, guardare in faccia l’orrore senza distogliere lo sguardo.

A Gaza il giornalismo non è un mestiere. È un atto di resistenza. È il filo sottile che tiene insieme la memoria di un popolo, la prova inconfutabile che la storia non può essere scritta solo dai vincitori. Ma in questa guerra che non risparmia nemmeno la verità, la macchina militare israeliana non colpisce solo edifici e rifugi. Colpisce le parole, le immagini, le vite di chi si ostina a raccontare.

Dal 7 ottobre 2023, almeno 208 giornalisti palestinesi sono stati uccisi. Un numero che non trova spazio nei grandi titoli, che non scuote le coscienze delle democrazie occidentali, così solerti nel difendere la libertà di stampa quando fa comodo, così rapide a voltarsi dall’altra parte quando i reporter indossano un giubbotto con la scritta “Press” e parlano arabo.

Ogni giornalista assassinato è un’ombra più scura sulla coscienza del mondo. Ogni notizia non raccontata è un pezzo di verità che si perde. Hossam e Mohammed sono stati eliminati perché il loro lavoro incrinava la narrazione dominante, quella che trasforma i carnefici in vittime, che depura il linguaggio fino a renderlo asettico, che fa della distruzione di Gaza un’operazione militare e non una strage.

Eppure, le parole non muoiono. I corpi possono essere spazzati via, ma le storie sopravvivono. Sopravvivono nelle immagini che Hossam ha girato fino all’ultimo istante, nei reportage di Mohammed, nelle voci di chi raccoglierà il testimone e continuerà a raccontare.

A Gaza si muore due volte. La prima sotto le bombe, la seconda nel silenzio del mondo. Ma c’è un terzo destino, quello della memoria. E quella, nemmeno le bombe possono cancellarla.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *