Stanotte Gaza non ha dormito. E chi ha dormito, ha perso un pezzo di sé.
Il trentacinquesimo ospedale è stato distrutto. Non danneggiato. Non colpito per errore. Distrutto.
E con esso, le culle, i letti operatori, le sacche di sangue, le urla soffocate nei corridoi.
Ogni volta che un ospedale cade, crolla anche l’illusione che ci sia un confine invalicabile, una soglia oltre la quale nessuno oserebbe andare.
Lì si curano i corpi, si strappano alla morte le ultime vite. Eppure, in questa guerra, la cura è diventata bersaglio.
Chi guarda da lontano, da Bruxelles, da Berlino, da Parigi, da Roma, dovrebbe sentire il boato.
Dovrebbe.
E invece l’Europa continua a cercare l’equilibrio mentre Gaza precipita.
Bilancia parole, pesa le condanne, redige dichiarazioni che evaporano prima ancora di arrivare alle orecchie di chi muore.
Ma come si può restare neutrali davanti a chi bombarda sistematicamente strutture sanitarie, tende di sfollati, scuole dell’ONU, bambini in fila per un pezzo di pane?
Come si può parlare di “diritto alla difesa” mentre si annienta la possibilità stessa di sopravvivere?
Il silenzio, ormai, è una scelta. Una posizione. Una complicità.
Perché non c’è neutralità nel rifornire di armi chi dichiara apertamente di voler “cancellare” un popolo.
Non c’è equilibrio nel trattare con chi trasforma l’assedio in programma, la fame in strategia, la morte in linguaggio diplomatico.
Stanotte, Gaza ha perso un altro frammento di ciò che resta del suo respiro.
Ma ha perso anche l’Occidente.
Ha perso la sua voce, la sua coerenza, la sua umanità.
Un ospedale alla volta.
E noi, qui, continuiamo a scrivere, a ricordare, a gridare, perché non ci rassegniamo all’idea che tutto questo possa diventare normale.
Non lo è. Non deve esserlo mai.