Il quotidiano Haaretz ha rivelato una pratica controversa dell’esercito israeliano (IDF) nella Striscia di Gaza: l’uso sistematico di civili palestinesi come scudi umani. L’inchiesta, condotta nell’agosto scorso, da Yaniv Kubovich e Michael Hauser Tov, ha raccolto testimonianze di soldati, riservisti e ufficiali, mostrando che i palestinesi venivano costretti a compiere operazioni pericolose, come ispezionare tunnel, maneggiare esplosivi o attraversare aree minate, al fine di proteggere i soldati.
Questa pratica richiama la “procedura del vicino” utilizzata nei primi anni 2000 in Cisgiordania e successivamente vietata dalla Corte Suprema. Nonostante il divieto, l’inchiesta ha dimostrato che l’uso di civili è diventato una prassi diffusa e formalizzata in molte unità, senza supervisione adeguata, spesso giustificata dai comandanti con motivazioni operative ed etiche.
In seguito all’inchiesta i portavoce dell’esercito, in un sussulto etico rispetto all’immensità delle atrocità commesse, hanno dichiarato che le istruzioni e gli ordini dell’IDF proibiscono l’impiego di civili di Gaza catturati sul campo per missioni militari che pongono deliberatamente a rischio le loro vite. Le istruzioni e gli ordini dell’IDF sull’argomento sono stati chiariti alle forze e le autorità competenti sono state informate in merito.
Amos Harel in un pezzo sul quotidiano del 17 dicembre, riassume e afferma che nonostante questa precisazione, dei messaggi su gruppi WhatsApp militari, di cui il quotidiano Haaretz è venuto a conoscenza, confermano l’uso degli “shawish” (un termine per indicare i palestinesi coinvolti), trattati come strumenti utili ma non considerati umanamente. Questo atteggiamento riflette un pericoloso scollamento tra le dichiarazioni etiche dell’esercito e le pratiche sul campo. Il messaggio WhatsApp, scritto da un anonimo comandante, per esempio, giustifica l’uso di civili palestinesi (“agenti”) in operazioni militari per proteggere i soldati israeliani, sostenendo che sia una scelta moralmente giustificabile e operativamente vantaggiosa. L’autore sottolinea che i civili palestinesi vengono mandati in situazioni di pericolo per evitare rischi certi ai soldati, sfruttando anche la loro conoscenza del territorio. Tuttavia, ammette l’importanza di preservare l’etica dell’esercito, affermando che l’umanità dei soldati deve essere mantenuta, anche se l’agente potrebbe non essere affidabile. Paradossalmente, pur richiamando principi morali, il messaggio tratta l’agente come uno strumento (“piattaforma”) piuttosto che come una persona. Questa non è che una conferma del fatto, e questo non riguarda soltanto l’esercito israeliano, che arrivati al conflitto armato l’etica, il diritto, la morale vengano del tutto accantonate.